LA VIOLETTA DI PARMA di Giorgio Dalla Villa.
Una delle profumazioni italiane di maggior successo nel nostro Paese e oltre i confini nazionali è stata per tutta la prima metà del Novecento 'Violetta di Parma'. Il consenso verso questo tenue e delicato aroma è stato così vasto che molte Case, come l’olandese Boldoot, l’inglese Blonde & C.ie, le francesi Roger & Gallet e Coudray o le italiane Tosi, Bertelli e Migone, dopo averne imitato la formula, hanno addirittura attribuito lo stesso nome al proprio prodotto. Per molto tempo 'Violetta di Parma' è stato il fiore all’occhiello della Borsari 1870, succeduta all’inizio degli anni 1960 alla Borsari & Figli, e distribuita con successo in molte parti del mondo. Chi produsse la Violetta, con le caratteristiche olfattive che noi conosciamo, commercializzandola oltre i confini della città di Parma, fu il ventiduenne Ludovico Borsari, che nel 1880, dopo varie sperimentazioni nel laboratorio di Dario Saccò, suo datore di lavoro e in seguito socio nella Casa di Profumo 'Saccò Borsari & C.', estrasse l’essenza dalle foglie di mammole. Le felici intuizioni e le manipolazioni sulla materia vegetale del geniale e giovane artista non diedero vita, però, a una nuova creazione olfattiva. Assegnarono piuttosto vigore a una profumazione che già esisteva e che veniva prodotta oramai da diversi anni dai frati farmacisti del convento di San Paolo e in alcune botteghe di barberia della città di Parma. Le origini della fragranza vanno ricercate in eventi verificatisi molti anni prima, all’inizio dell’Ottocento, quando sull’Europa volteggiava minacciosa l’aquila di Napoleone Bonaparte. Nel 1810 Napoleone, al culmine del proprio potere, voleva una discendenza. Giuseppina, che Bonaparte aveva sposato più per le insistenze della donna che per intima convinzione, non era in grado di dargli il figlio tanto desiderato. Più anziana di lui e già madre di due giovani quando Bonaparte la conobbe, da alcuni anni aveva superato l’età fertile. Nonostante l’amore che lo legava alla donna -forse la più chiacchierata di Parigi che con i suoi tradimenti aveva spesso messo in ridicolo l’imperatore dei francesi- decise di divorziare per impalmare una giovane in grado di renderlo padre. Una scelta così impegnativa era obbligata da convenienze di 'buon vicinato' e alleanze con altre potenze. Alle corti europee, fino a non molto tempo fa, le figlie dei sovrani erano merce preziosa per creare parentele, disinnescare possibili guerre, rinvigorire nazioni in decadenza. Venivano allevate quindi per essere offerte, giunte in età feconda, al miglior offerente con gli auspici di una prole numerosa e di una durevole alleanza. Napoleone, consapevole della gravità della decisione che stava per prendere, cercava di abbinare la scelta di una moglie a una parentela che potesse divenirgli utile. L’Austria e la Russia, che in quel momento avevano instaurato con l’imperatore una fragile alleanza -lieve come un sospiro- avevano principesse delle quali poter chiedere la mano. Rivolse per primo la richiesta allo zar, padre di due giovanette, e un brivido di orrore percorse la corte russa. Mai la zarina avrebbe concesso a una delle sue figlie di giacere nel letto dell' 'Orco Corso', come veniva soprannominato Napoleone, nato in Corsica nel 1769, tanto più che nessuna delle due bambine raggiungeva i quindici anni. Lo zar, adducendo come impedimento la tenera età delle figlie e fingendo rammarico, fu 'costretto' a negare la loro mano, nonostante Napoleone si dichiarasse pronto a attendere un’età più consona al matrimonio. Non restava che rivolgersi all’Austria e a Francesco I. La paciosa e timida figlia dell’imperatore, l’arciduchessa Maria Luigia, tenuta in serbo per un matrimonio di convenienza, aveva diciotto anni e era quindi in età da marito: il padre non avrebbe potuto rifiutare. E fu così che facendo buon viso a una situazione non certamente gradevole per Francesco I, che provava una profonda antipatia per il piccolo e bellicoso generale venuto dal nulla, Maria Luigia d’Austria convolò a nozze con Napoleone Bonaparte imperatore dei Francesi. Napoleone non ebbe a dolersi della scelta. Maria Luigia era docile e affettuosa, ingenua come si conveniva a una giovane della sua età alla quale, quando era alla corte austriaca, era stata bandita anche la vista degli animali di sesso maschile. La scoperta delle gioie matrimoniali la esaltò rendendola perennemente allegra e rinvigorendo l’umore dello sposo. Una passione poi Maria Luigia si era portata dal palazzo natio: l’amore per le violette, che un po’ le somigliavano con quel nascondersi sempre sotto le larghe foglie. Anche lei, da ragazza, cercava sempre di defilarsi e di scomparire, pervasa da una forma di timidezza che la faceva arrossire per un nonnulla. Le violette entrarono anche a Palazzo imperiale circondando l’arciduchessa, dipinte nei piatti, sui ventagli, sui cartoncini d’invito, sulla carta da lettera. Non c’era artigiano che non donasse all’imperatrice un’opera che aveva come tema la violetta, tanto che l’umile fiore di campo divenne il suo simbolo. Puntualmente nel 1811 Maria Luigia diede un erede a Napoleone Bonaparte che subito attribuì all’infante il titolo di re di Roma. Poi venne il 1813 e la disastrosa campagna di Russia (chissà quale decisione avrebbe preso Napoleone se lo zar gli avesse concesso in sposa una figlia), e nel 1814, dopo l’abdicazione del marito e il confino all’Isola d’Elba, Maria Luigia tornò dal padre alla corte di Vienna. Nel 1815 nella capitale austriaca le potenze europee rimisero ordine nei confini delle nazioni sconvolte dalle guerre napoleoniche e Francesco I, per tacitare la figlia che protestava a causa della restaurazione dei Borboni in Francia (dopotutto era lei l’imperatrice dei francesi), le assegnò il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, spedendola in Italia. Da sola, perché l’imperatore d’Austria, per salvaguardarsi da future oscure manovre, trattenne il figlio di Napoleone, il re di Roma, presso di sé, imponendo ai suoi educatori di non parlare mai al ragazzo del padre. Nella primavera del 1816 Maria Luigia entrò a Parma; non proprio sola. L’accompagnava il suo amante, il generale Neipperg. Napoleone aveva guarito la docile arciduchessa austriaca dalla sua timidezza rendendola particolarmente sensibile al fascino maschile. Il destino di Napoleone Bonaparte non differiva da quello della maggior parte dei potenti di ogni epoca: amato sino all’estremo sacrificio dai suoi soldati, che sovente diedero la vita parando con il proprio corpo le pallottole destinate al petto dell’imperatore, e 'usato' dalle donne per il potere che rappresentava. Del resto l’accusa di infedeltà rivolta alla mite duchessa deve essere considerata nella visione di un matrimonio dettato dalla 'ragion di stato': impegno al quale Maria Luigia si era ben adattata e sottomessa finché Napoleone era rimasto al potere. Con la caduta dell’imperatore cessava il suo mandato di 'collante' tra Francia e Austria, e la giovane poteva considerarsi finalmente libera di dare corso ai propri sentimenti. Patetiche e commoventi sono le lettere che Napoleone inviava alla moglie da Sant’Elena, particolarmente ora che la donna era a Parma, non troppo distante dal suo esilio, perché venisse a trovarlo. Un viaggio breve che avrebbe lenito la sua sofferenza di prigioniero. Maria Luigia aveva già dimenticato il marito e stava vivendo un’altra vita accanto all’amante -con il quale ebbe altri due figli, Albertina e Guglielmo- in una città gradevole, lontana dai turbamenti degli ultimi periodi. Si adattò velocemente alla nuova condizione. Le piaceva Parma, la cucina locale, il buon vino, il clima temperato, frequentava i caffè eleganti, divenne un’ottima giocatrice di biliardo e una buona pittrice con i colori a acquarello. Anche i parmensi apprezzarono fin dai primi tempi il buon carattere dell’arciduchessa, pronta a elargire denaro, sorrisi e consigli sull’amministrazione della città; e quando conobbero la passione dell’arciduchessa per le violette fecero a gara per soddisfare i suoi desideri. Le stanze del suo appartamento, in un modesto edificio accanto alla Pilotta, in primavera erano cosparse di mazzolini di violette che le contadine portavano in dono ogni sera, al rientro dai campi, raccolte lungo i fossi o sui pendii delle colline parmensi. Maria Luigia, che si trovava più a suo agio con la gente del popolo che con la nobiltà parmense che volentieri la ignorava, accettava i doni e ringraziava. Fu un fraticello del convento di San Paolo, un giorno, a portare in dono a Maria Luigia un’essenza distillata nel laboratorio di farmacia del monastero. Aveva utilizzato fiori e foglie di violetta; le aveva lasciate macerare in alcol e quindi, dopo avere scaldato la sostanza in un alambicco, l’aveva distillata. Il profumo che ne aveva tratto era quello della violetta, meno fresco e intenso dell’originale, ma indispensabile nelle nebbiose stagioni invernali per rivivere la primavera emiliana, le scampagnate sull’erba, le cavalcate lungo i sentieri collinosi e le morbidi e dolci serate piene di stelle a chiacchierare delle vicende domestiche sulla veranda. Bastava strofinare qualche goccia di essenza sulle mani e ecco che i vecchi muri della stanza divenivano siepi di biancospino, e le viole facevano capolino dall’ombra umida ai piedi dei pioppi. L’essenza ebbe immediato successo e la piccola corte di Maria Luigia, un po’ per condiscendenza e un po’ per seguire la novità del momento, prese a indossare la fragranza. Più gli anni passavano, più la violetta e il suo profumo divennero parte della vita intima della duchessa; una vita che trascorreva pigra, con le gioie e i dolori di ogni esistenze. Sopportò la scomparsa del conte di Neipperg nel 1829 e quella del figlio, 'il re di Roma' minato dalla tisi nel 1832. Si risposò con il conte di Bombelles nel 1834. Su tutto dominava il profumo di violetta, oramai il suo simbolo, che anche dopo la scomparsa di Maria Luigia, nel 1847, continuò a essere prodotto nel convento di San Paolo per soddisfare quella clientela locale che ricordava con affetto il buon governo della duchessa. La Parma agreste, amante del buon vino e del buon canto, sarebbe rimasta per il resto del mondo una località anonima, persa nella fertile e laboriosa campagna emiliana, se il giovane Ludovico Borsari non avesse riscoperto quel soave aroma alla violetta e non l’avesse esaltato con formule di sua invenzione, assegnando alla nuova creazione il nome della sua città e contribuendo così a renderla famosa in tutto il mondo.
Articolo pubblicato nel n° 37 di 'Profumeria da Collezione' Edizioni 'Museo del Profumo Milano'